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venerdì 30 luglio 2021

Itaca, di Alekos Panagulis

 







Itaca, di Alekos Panagulis



Quando sbarcasti a Itaca

che tristezza avrai provato, Ulisse!
Altra vita avevi dinanzi
perché arrivare tanto presto?

Senza più scopo restavi
da grande diventavi piccolo
“Se Itaca fosse più lontana”
credo che tu mormorassi
e una nuova Itaca non volesti cercare
per paura di giungere
anche là troppo presto

Dovevi cercare all’inizio
un’Itaca tutta diversa
un’Itaca bella e lontana
che a raggiungerla
non ci prova un uomo soltanto

Questa non era la tua
perché tu solo la desideravi
Se fu vista da tanti così bella
il merito è d’Omero

martedì 4 agosto 2020

Buonanotte a te, di Charles Bukowski

Buonanotte a te che in questo momento
dovresti essere qui e non chissà dove.
Buonanotte a chi anche stanotte
si perderà tra le lacrime e i pensieri.
Buonanotte a chi ha sperato, lottato
a chi ha tirato fuori le unghie ma comunque ha perso.
Buonanotte a me, che ti aspetto e prego ogni sera per vederti tornare.
Buonanotte ai codardi, ai “lo faccio per te”,
a chi ha deposto i sogni nel cassetto,
a chi è caduto ma ha avuto la forza e il coraggio di rialzarsi.
A chi non vuole occhi diversi.
A chi non ci riesce, a chi ci prova ma è dura,
a chi soffre in silenzio, a chi ride ma sta male,
a chi non riesce a camminare,
a chi è stato lasciato,
a chi ha il cuore spezzato.
Buonanotte, che poi questa notte di buono non ha nulla.
E resterò sveglia a pensarti, a immaginarti
a chiedermi come stai, cosa fai, se sorridi, se sei felice, se ti manco, se stai bene anche senza di me.
Chi ti scalda la notte, chi ti guarda dormire,
chi ti sorride così dal nulla.
E non so, ma ho paura.
Perché la notte diventiamo più deboli,
perché la notte cadiamo, i pensieri vanno veloci e le lacrime scendono.
Dove sei, con chi sei, mi manchi.
Charles Bukowski


sabato 11 luglio 2020

Fu lungo il mio cammino fino a te, di Blaga Dimitrova


Fu lungo il mio cammino fino a te,
la vita intera quasi ti cercai
per serpeggianti avidi incontri
con altri, e tu non venivi.
E fino a dove s’apriva il tuo sguardo,
ombre attraversai e rumori sordi,
ma trapelava da me soltanto
purezza di suoni – per amor tuo.
Ogni tua carezza io piansi,
prima che fosse nata la difesi,
e il nostro futuro incontro custodivo
con pazienza nel mio petto.
Fu lungo il mio cammino fino a te,
immensamente lungo, e quando tu davvero
finalmente davanti a me sei apparso,
ho riconosciuto te, ma me stessa a stento.
Immensi spazi avevo in me raccolto,
sconfinati aromi, timbri e desideri,
e abbracciavo ormai uno spazio così vasto
che accanto a me dovevi fermarti.
Fu lungo il mio cammino fino a te,
e ci ha unito per un incontro breve.
Sapendolo… di nuovo sceglierei
questo lungo cammino fino a te.
Blaga Dimitrova


mercoledì 1 luglio 2020

Vorrei che tu venissi da me, di Dino Buzzati

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino BuzzatiGli inviti superflui


domenica 12 aprile 2020

Pasqua







Poesia di David Maria Turoldo
Per il mattino di Pasqua

Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Andrò in giro per le strade
zufolando, così,
fino a che gli altri dicano: è pazzo!
E mi fermerò soprattutto coi bambini
a giocare in periferia,
e poi lascerò un fiore
ad ogni finestra dei poveri
e saluterò chiunque incontrerò per via
inchinandomi fino a terra.
E poi suonerò con le mie mani
le campane sulla torre
a più riprese
finché non sarò esausto.

E a chiunque venga
anche al ricco dirò:
siedi pure alla mia mensa,
(anche il ricco è un povero uomo).
E dirò a tutti:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Tutto è suo dono
eccetto il nostro peccato.
Ecco, gli darò un'icona
dove lui bambino guarda
agli occhi di sua madre:
così dimenticherà ogni cosa.
Gli raccoglierò dal prato
una goccia di rugiada
è già primavera
ancora primavera
una cosa insperata
non meritata
una cosa che non ha parole;
e poi gli dirò d'indovinare
se sia una lacrima
o una perla di sole
o una goccia di rugiada.
E dirò alla gente:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.

Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell'usignolo,
quell'usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all'alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all'alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: pace!
e poi cospargerò la terra
d'acqua benedetta in direzione
dei quattro punti dell'universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell'altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco.

oesia di David Maria Turoldo
Per il mattino di Pasqua

Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Andrò in giro per le strade
zufolando, così,
fino a che gli altri dicano: è pazzo!
E mi fermerò soprattutto coi bambini
a giocare in periferia,
e poi lascerò un fiore
ad ogni finestra dei poveri
e saluterò chiunque incontrerò per via
inchinandomi fino a terra.
E poi suonerò con le mie mani
le campane sulla torre
a più riprese
finché non sarò esausto.

E a chiunque venga
anche al ricco dirò:
siedi pure alla mia mensa,
(anche il ricco è un povero uomo).
E dirò a tutti:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Tutto è suo dono
eccetto il nostro peccato.
Ecco, gli darò un'icona
dove lui bambino guarda
agli occhi di sua madre:
così dimenticherà ogni cosa.
Gli raccoglierò dal prato
una goccia di rugiada
è già primavera
ancora primavera
una cosa insperata
non meritata
una cosa che non ha parole;
e poi gli dirò d'indovinare
se sia una lacrima
o una perla di sole
o una goccia di rugiada.
E dirò alla gente:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.

Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Non credo più neppure alle mie lacrime,
e queste gioie sono tutte povere:
metterò un garofano rosso sul balcone
canterò una canzone
tutta per lui solo.
Andrò nel bosco questa notte
e abbraccerò gli alberi
e starò in ascolto dell'usignolo,
quell'usignolo che canta sempre solo
da mezzanotte all'alba.
E poi andrò a lavarmi nel fiume
e all'alba passerò sulle porte
di tutti i miei fratelli
e dirò a ogni casa: pace!
e poi cospargerò la terra
d'acqua benedetta in direzione
dei quattro punti dell'universo,
poi non lascerò mai morire
la lampada dell'altare
e ogni domenica mi vestirò di bianco.

mercoledì 30 settembre 2015

Bye bye september

Bye bye september,
mese di lavoro, di ripresa, di cose iniziate e di energia ancora fresca, di mente presente e di buoni propositi, di speranze di gite di viaggi di soldi di mostre, di malintese trascuratezze e di fondati allarmi e di parchi e abbandonate giostre.
Bye bye september, e con te bye bye estate, letture tranquille, tempo smodato rilassato disteso e proteso all'interno, piacere assolato e gelato.
Bye bye september, è già ottobre, ottobre di vento, pioggia, nuvole, castagne, e se va bene vin brulé, e se va bene qualche film, e se va bene un po' di te.





(Ehi, ma è una poesia! Chi l'avrebbe mai detto.)
(Allora la firmo.)
(E guai a chi me la ruba!)

Marinella Casadei

sabato 2 giugno 2012

Poesie alla luna, illustrate da Gianni De Conno



Un libro di grande formato, molto ben realizzato e con illustrazioni davvero suggestive, nello stile quasi onirico dell'autore.
Le poesie scelte sono tutte belle e in seconda di copertina è indicato l'autore della traduzione (informazione essenziale che però non ogni libro si premura di dare), dispiace solo che non abbiano messo anche la versione originale delle poesie stesse, che in alcuni casi sarebbe stata necessaria, anche solo per coglierne la musicalità. Tra l'altro la bellezza delle diverse calligrafie avrebbe potuto ulteriormente accrescere il fascino già forte del libro.


Ciascuno di coloro che perdiamo prende una parte di noi:
rimane solo uno spicchio
che come la luna, una torbida notte,
è richiamato dalle maree.
Emily Dickinson
(traduzione di Paola Parazzoli)


Così non andremo più errando
così tardi dentro la notte.
Anche se il cuore ama molto ancora,
e la luna è ancora molto luminosa.
Poiché la spada logora il fodero,
e l'anima logora il petto;
e il cuore deve fermarsi a respirare,
e anche l'Amore deve avere tregua.
Anche se la notte fu fatta per amare,
e il giorno troppo presto torna,
noi non andremo più errando
alla luce della luna.
George Gordon Byron
(traduzione di Beatrice Masini)


Sei pallida perché
sei stanca di scalare il cielo
e fissare la terra
tu che ti aggiri senza compagnia
tra le stelle che hanno una differente
nascita, ti che cambi
sempre come un occhio senza gioia
che non trova un oggetto degno
della sua costanza?
Percy Bysse Shelley
(traduzione di Giuseppe Conte)


La Luna e le Pleiadi sono tramontate:
è mezzanotte, le ore passano
e io rimango sola nel mio letto.
Eros mi ha sconvolto il cuore,
come il vento in montagna si abbatte sulle querce.
Eros, che indebolisce le nostre membra,
di nuovo mi tormenta, deolceamara invincibile creatura.
Ma ame non miele, non ape...
e mi agito e desidero.
Saffo
(traduzione di Silvia Bellingeri)


Quando si alza la luna
si smarriscono le campane
e appaiono i sentieri
di ciò che è impenetrabile.
Quando si alza la luna
il mare ricopre la terra,
mentre il cuore si sente
un'isola dell'infinito.
La luna è più lontana
del sole e delle stelle. 
E' profumo e ricordo,
bolla d'azzurro ormai sfiorito.
Federico Garcia Lorca
(traduzione di Renato Bruno e Lorenzo Blini)



Poesie alla luna,
Rizzoli, Milano 2009,
€ 22,50.

Dal sito delle edizioni EL.
http://www.edizioniel.com/DB/scheda_autore.asp?IDA=542
Gianni De Conno è sicuramente uno dei grandi, magistrali interpreti del visivo contemporaneo, anche se non è stato facile per lui affermarsi in Italia. Suggestive inquadrature, sapienti giochi di luci ed ombre, gradazioni e contrasti tonali sono elementi della sua sintassi iconica. Le sue illustrazioni, colte, magiche, evocative nell’essenzialità del segno e nelle brillanti soluzioni compositive, suscitano nel lettore indimenticabili emozioni. De Conno racconta con il segno ma soprattutto con il colore la vita e i pensieri dell’uomo, le sue speranze, i suoi sogni, i suoi drammi, le sue angosce. Ecco perché potremmo definirlo un “poeta del visivo”. Ecco perché affascina tutti, bambini ed adulti.

sabato 19 novembre 2011

Da Stardust a Howl a Tolkien, attraverso John Donne

Collegamenti





Leggendo Stardust di Neil Gaiman, trovo una poesia di John Donne che mi sembra di aver già letto. Strano, perché non ho alcun libro di questo poeta né mai mi è capitato di studiarlo.
Ecco la poesia (tradotta dall’inglese, suppongo all'inizio io, dal traduttore del libro, che mi pare non avere una gran vena poetica):

"Va’ ad afferrare una stella cadente,
impregna una radice di mandragola,
dimmi ove son tutti gli anni passati,
o chi fendette il piede del diavolo,
insegnami a udire il canto delle Sirene,
o a evitare la trafittura d’invidia,
e trova
qual vento
occorra per far progredire un animo onesto.

Se tu sei nato a strane visioni,
a veder cose invisibili,
cavalca notti e giorni diecimila,
finché vecchiezza nevichi su te bianchi crini;
tu, al tuo ritorno, mi racconterai
tutti i portenti strani che ti accaddero,
e giurerai
che in nessun luogo
vive donna fedele e bella.

Se ne trovi una, fammelo sapere,
dolce sarebbe un tal pellegrinaggio;
ma no, non dirmelo; io non vi andrei
anche se potessi incontrarla alla porta accanto;
per quanto fosse fedele quando tu l’incontrasti,
e lo rimanesse fino a che tu mi abbia scritto la lettera,
ella però
sarà infedele,
prima ch’io venga, a due o tre."

Improvvisamente si accende una luce…grazie alla “donna fedele e bella” e alla stella cadente, per quanto l’ultima strofa proprio non mi suoni e anzi mi dia fastidio per l’evidente misoginia.
Così corro nella mia libreria, prendo “Il castello errante di Howl” e sfoglio…e trovo. La traduzione mi sembra decisamente migliore, come ricordavo.

“Prendi una stella cadente, con tatto
Alla mandragola dona un bambino.
Gli anni passati, che fine hanno fatto?
Chi taglia al Diavolo il piede caprino?
Delle sirene come odo il canto?
E dell’invidia com’evito il pianto?
Ancora, ancora:
qual è il mulinello
Che spinge l’onesto oltre ogni tranello?

Di cosa si tratti decidilo tu,
E aggiungi, a questa, una strofa in più.”

E oltre:

“Se tu sei nato in stravaganza,
E l’invisibile il tuo occhio non manca,
Per diecimila dì e notti avanza
Finché la neve degli anni t’imbianca.
Al tuo ritorno mi racconterai
Le meraviglie del tuo viavai.
E giura: nemmeno
Su di una stella
Esiste donna fedele e bella.
Se tu…”

Siccome l’editore del libro (la Kappa Edizioni, cui dobbiamo anche Conan di Alexander Key, che la mia generazione desiderava leggere da più di venticinque anni) ha fatto un buon lavoro, alla fine inserisce una Nota, in cui ci spiega di aver adattato la poesia nella traduzione, per mantenere la rima e i doppi sensi, e ci cita anche la traduzione più nota in Italia, quella di G. Melchiori per l’edizione delle Liriche sacre e profane di Donne edita da Mondadori nel 1983. E scopriamo che è quella usata per Stardust, senza però che in questo libro neanche una nota ce lo indichi (e non si fa così!).

Ora, la traduzione di Melchiori è datata e lo si percepisce subito. Soprattutto se leggiamo (ancora grazie all’edizione Kappa) l’originale inglese:

"Go and catch a falling star,
Get with child a mandrake rott,
Tell me where all past years are,
Or who cleft the devil’s foot.
Teach me to hear the mermaids singing,
Or to keep off envy’s stinging,
And find
What wind
Serves to advance an honest mind.

If thou beest born to strange sights,
Things invisible to see,
Ride then thousand days and nights
Till age snow white hairs on thee.
Thou, when thou returnest, will tell me
All strange wonders that befelt thee,
And swear
No where
Lives a woman true, and fair.
If thou…”

Il testo è straordinariamente immediato, pur nell’abbondanza dei suoi riferimenti magico-criptici, e molto musicale.

Ma c’è un altro collegamento che vorrei fare, oltre a questo delle traduzioni.

Nei ringraziamenti alla fine di Stardust, Gaiman ne fa due che mi hanno colpito. Quello a Diana Wynne Jones, ovviamente, il cui libro è di tredici anni precedente quello di Gaiman. E poi l’altro: “Sono inoltre debitore nei confronti di Hope Mirrlees, lord Dunsany, James Branch Cabell e C.S. Lewis, ovunque essi siano, per avermi insegnato che le fiabe sono anche per gli adulti.”
Proprio qualche settimana fa ho scoperto che Lewis stesso era stato portato a questa scoperta da un altro grande della letteratura inglese, Tolkien, che ne parlò (senza dirne il nome, poi ricostruito dagli studiosi) nella conferenza Sulle fiabe. Ecco il brano, tratto da J.R.R. Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004, pagg. 212/213.

“A molti la Fantasia, quest’arte sub-creativa che gioca strani tiri al mondo e a tutto ciò che è in esso, combinando nomi e ridistribuendo aggettivi, è sembrata sospetta, se non illegittima. Ad alcuni è sembrata quantomeno una follia infantile, una cosa adatta soltanto a popoli o a persone nel periodo della loro giovinezza. Per quanto riguarda invece la sua legittimità, non dirò altro, a parte citare un breve brano da una lettera che una volta mandai a un uomo che descriveva i miti e le fiabe come “menzogne”; anche se, per rendergli giustizia, egli era abbastanza gentile e abbastanza confuso da chiamare la creazione di fiabe “sussurrare una menzogna attraverso l’argento”.

“Caro Signore,” dissi, “benché sia ora lontano scacciato
l’Uomo non è del tutto perduto, né del tutto cambiato.
Dis-graziato può esserlo pure, ma non de-tronizzato,
ed i cenci della signoria di un tempo ha conservato:
l’Uomo, il Sub-creatore, è la riflessa luce
attraverso la quale dal Bianco si produce
una gamma di colori, senza fine combinati in viventi
forme che si muovono fra le menti.
Se tutte le fessure del mondo colmammo
con Elfi e Folletti, se creare osammo
gli Dei e le loro magioni dal buio e dalla luce
e seminammo semente di draghi – ciò era (a torto o a ragione)
nostro diritto. Questo diritto non è decaduto:
ancora creiamo secondo la legge che così ci ha voluto.”

La Fantasia è una naturale attività umana."

A piè di pagina c’è la Nota del curatore Christopher Tolkien: “L’argomento di questa poesia – qui citata in piccola parte – intitolata Mythopoeia (…) è la base della conversazione fra Tolkien e l’amico C.S. Lewis (l’uomo che riteneva miti e fiabe delle “menzogne”) avvenuta la sera del 19 settembre 1931 mentre passeggiavano lungo Addison Walk a Oxford. Fu in quella occasione che Tolkien “convertì” Lewis alla sua verità facendogli anche abbandonare il protestantesimo per il cattolicesimo”.

Due annotazioni. Certe chiacchierate sono talmente importanti che non solo te le ricordi anche dopo anni, ma segnano una svolta nella vita, ed è bello ricordarle così, con data e luogo, non solo per le vite dei grandi della letteratura, ma anche per le nostre. Anch’io ne ho in mente qualcuna, nella mia vita (anche se potrei dire l’anno, difficilmente il giorno).

Altra cosa. Tolkien ha insegnato a Lewis il valore della fiaba, Lewis l’ha insegnato a Gaiman. Tutti l’hanno fatto fruttificare. Sicuramente non solo loro, di cui sappiamo: molti altri forse nelle loro case, nelle loro scuole, nei circoli di amici. Questo significa che quando capiamo qualcosa, non importa se grande o piccolo, lo dobbiamo trasmettere, condividere, non ne dobbiamo essere avari né vergognosi, perché così diviene una ricchezza per tutti, un patrimonio comune che può svilupparsi ancor più.
E questa idea fu proprio il senso di una conversazione avuta a Faenza con alcuni cari amici…


  Ops! Vedo ora che ne hanno fatto una nuova traduzione, in un'edizione di Feltrinelli con prefazione di Virginia Woolf, introduzione di Giles Lytton Strachey e traduzione di Rosa Tavelli...chissà com'è tradotta qui la poesia di Howl (per me si chiamerà sempre così) in italiano?


 
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