Tre amiche in viaggio a Parigi per realizzare una promessa fatta da ragazze. Non solo bagagli con loro, ma il figlio di una, e più che le aspettative le tre portano con sé stesse i loro problemi, le questioni, le cose irrisolte. Romanzo a più voci, in cui colpiscono quelle più inaspettate. Nella vicenda e nell’investigare su di sé e gli altri ciascuna riesce a trovare qualcosa, a dipanare qualche filo, con una sorta di epifania che avviene tra Disneyland Paris e la stazione ferroviaria. Mariangela riallaccia un rapporto positivo con il figlio; Barbara fa i conti con la figura del padre, amato-odiato per la sua freddezza e lontananza, che finalmente anch’egli, tramite una lettera, ha il coraggio di riconoscere e motivare; Silvia, insoddisfatta del suo lavoro e delle sue relazioni, con il pensiero fisso di una sorellastra che se n’è andata da casa alla morte della madre, si riconcilia con se stessa e con le mancanze della propria vita.
La scrittrice mostra anche in questo libro la propria capacità di far parlare i personaggi in modo credibile, per quanto le voci narranti siano forse un po’ troppe. C’è sempre veridicità nelle parole e quei guizzi di ironia cui ci ha abituati negli altri libri e che risollevano spesso il tono della narrazione. Ha inoltre momenti di grande introspezione e capacità di lettura dell’esperienza vitale. Insomma, un buon libro, che scorre felicemente e lieve, sapendo accennare alla complessità di ciò che ogni essere umano si porta dietro, e sempre con semplicità e sensibilità.
Alcuni passaggi, tra quelli che più mi sono sembrati efficaci.
“Barbara pensa che l’Italia è un paese gravato da una caterva di leggi e disposizioni rigorosissime, temperate però da una generale inosservanza…” (p. 37)
“Poter tornare indietro, riavvolgere il film della propria vita, rimugina tra sé Mariangela. Riandare a quando avevo davanti uno snodo di autostrade, mentre ora cammino in una mulattiera stretta e in salita. Avere cento o dieci o anche solo due possibilità di scelta.” (p. 38)
“Lui, Kelvin, che è fiero da matti del suo nome, fusion o refuso che sia tra Kevin (Costner) e Calvin (Klein). Bel ragazzo: gambe lunghe, fianchi stretti e viso trendy da fotomodello, con la barba di due giorni tenuta sotto stretto controllo. Espressivo come un fotomodello, cioè un po’ meno degli idoloni dell’isola di Pasqua, quelli che i pasqualini hanno continuato a scolpire sino a trasformarla in un deserto del Gobi australe.” (p.69)
“Lo so che è un bambino infelice, ma non posso farci niente, perché sono infelice anch’io e l’infelicità è contagiosa, come l’influenza, il morbillo e la meningite. Ma lui, credo, non è infelice sempre (…). Comunque, anch’io non è che sia sempre infelice. Quando al lavoro, mi prendo una tazza di tè con uno o l’altro dei pediatri o dei medici, prima che loro comincino a visitare, e chiacchieriamo cinque minuti del più e del meno, col telefono staccato per pigliare un po’ di respiro, be’ in quei momenti lì sono felice, o mi dimentico dell’infelicità, che è quasi la stessa cosa.” (pp.98-100)
“Barbara procede nella fila tenendo Manuel per mano, le altre due escono. “Mi dispiace” dice Mariangela poco dopo, “dovevo restare a casa e non rovinarvi il soggiorno con la presenza del bambino.” “Lascia perdere. Le moschettiere erano e sono tre, non due.” “Ma purtroppo Manuel non è D’Artagnan.” “Ti rovina tanto la vita?” “Rovinare è una parola grossa, certo che non me la rende facile. E quando mi lascerà respirare sarò vecchia, come dice lui, o fuori mercato come dico io. Comunque beata te, che un figlio non ce l’hai.” “Avevo una quasi figlia, mia sorella, e sai com’è finita.” “Ti manca?” “Forse sì. Forse continuo ad avercela con lei proprio perché mi manca. Prima ero incazzata e basta, pensavo di lei le peggio cose, per esempio che ha preferito emigrare dove di soldi ce ne sono tanti, che magari si fa cambiare il cognome quando diventa maggiorenne. Cose così. Adesso non so.” “Be’, anche per lei è stata dura. E poi crescere è così difficile. Noi, riguardo a quello, siamo state fortunate, ma pensa a Barbara…e a Manuel. Bisogna sforzarsi di capire.” “Ma me, chi mi capisce?” “Ti devi capire da sola. Sei grande, anzi vecchia, come dice Manuel.” (pp. 284-285).
Un bel libro: 8. –
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